L’universo non è benevolo. L’universo è indifferente. Non gli importa niente di noi. Se siamo fortunati. Perché a volte succede invece che l’universo si interessi a noi, che posi il suo sguardo su di noi. E veniamo presi dalla sensazione “che una presenza occulta si aggiri nei dintorni”, che ci osservi, “sempre più vicina”, “emanando il tenue bagliore di una volontà malvagia”. Di sicuro il Bene non esiste, ma forse esiste il Male, e forse “al mondo succede più merda di quello che noi sappiamo, non meno”.
Questo è un romanzo labirinto, che sembra una crime story, e forse non lo è; che sembra un horror, e forse lo è; che sembra una tragedia, e… sì, probabilmente lo è. Un romanzo in cui ci si perde, proprio come nello spazio distorto della House of Wills, infestato da presenze impalpabili e da personaggi che sembrano provenire dal passato, o esistere in più luoghi contemporaneamente.
In questo labirinto il lettore, e prima di lui il traduttore, rischiano di non riuscire a rintracciare un’unità al di là dell’apparente frammentarietà di una vicenda suddivisa in undici parti, in cui si alternano molteplici e diversi punti di vista, e le voci dei personaggi si danno il cambio in un continuo avvicendarsi di stili, atmosfere, registri linguistici, rimandi e riferimenti, che crea un effetto vertiginoso e obbliga il traduttore a trovare a sua volta altrettante voci diverse.
Sono convinta che il compito di chi traduce sia quello di assumere il punto di vista dell’autore, prima ancora di quello del lettore, ed è per questo che leggo sempre per intero i romanzi che traduco prima di iniziare il lavoro: per avere sottomano il quadro generale, la vicenda, la struttura, la voce o le voci, il nucleo drammatico; ma in questo caso porsi dal punto di vista dell’autore significava calarsi in una nebbia sempre più fitta, che si diradava solo a tratti offrendo immagini contrastanti, e in cui il continuo capovolgimento dei punti di vista vanificava ogni illusione di aver trovato la chiave, la soluzione dell’enigma.
Perché mentre ciascuno dei protagonisti cerca di individuare un filo conduttore tra un passato sanguinoso e un presente enigmatico e sempre più sinistro, è come se l’architettura stessa del mondo, che all’inizio sembra un edificio relativamente solido, cominciasse a cedere, a sfarinarsi, man mano che ci si rende conto che tutte le voci narranti, nessuna esclusa, sono totalmente inaffidabili, forse perché non esistono, né possono esistere, narratori affidabili.
“Cosa ci è successo?” si chiede un personaggio, ma la domanda sembra destinata a non poter mai ricevere una risposta definitiva: “Io credo che in realtà nessuno ricordi quello che gli è successo davvero. Ricordano solo le parti che si incastrano in maniera logica”. Quasi tutti sembrano convinti “di essere degli esperti della propria storia personale”, ma forse non siamo noi “i curatori della nostra vita”. “I ricordi non sono più affidabili dei sogni”.
Questo scacco intellettuale, ma anche esistenziale, che frustra qualunque tentativo dei personaggi di dare un senso al proprio passato, e quindi a se stessi, ci accompagna durante la lettura con un’angoscia sottile e pervasiva. In teoria il lettore dovrebbe trovarsi in una prospettiva privilegiata rispetto a quella dei personaggi, perché conosce tutte le loro voci, mentre ciascuno di loro conosce solo la propria. Eppure, arrivato alla fine, in realtà non ne sa molto più di loro, e si ritrova in mano le tessere di un puzzle incompleto, in cui molti pezzi si incastrano tra loro in tante, possibili maniere diverse, mentre altri probabilmente non si incastrano da nessuna parte. “Il Tao che può essere detto non è il vero Tao. Il nome che può essere nominato non è il vero nome. Il ricordo che può essere detto non è il vero ricordo.” Il mondo è un luogo opaco, desolato, in cui vaghiamo senza in realtà sapere dove stiamo andando, alla ricerca di un senso destinato per sempre a sfuggirci.